Archivio | settembre, 2018

Un mio racconto breve: Tashi

24 Set

All’uscita, sul marciapiede, alcune persone si attardavano a chiacchierare, ma Valeria non conosceva nessuno di loro e non aveva voglia di inserirsi nel gruppetto, come magari avrebbe fatto in Thailandia, quando dopo gli insegnamenti al tempio tutti gli occidentali presenti si radunavano e schiamazzavano fino al ristorantino dover avrebbero passato la serata.
Qui a Milano i rapporti erano più formali, se ne era accorta Valeria da quando aveva cominciato a viverci; non ci voleva niente alla gente a farti sentire esclusa, e lei, Valeria, quella sera non aveva nessuna voglia di sentirsi esclusa da qualcosa di cui tra l’altro non le importava nulla; così cominciò ad avviarsi verso casa. Avrebbe fatto la strada a piedi invece di prendere l’autobus. Ma quando, dopo un ciao a fior di labbra a cui nessuno del gruppo sul marciapiede aveva risposto, aveva già fatto alcuni passi, sentì una mano posarsi sulla sua spalla. A quel tocco si voltò e vide un ragazzo alto e magro a cui a colpo d’occhio Valeria non seppe dare l’età. Dai lineamenti poteva essere tibetano o indiano, indiano d’America intendo. Ciao, gli disse lei improvvisamente rianimata e diventata perfino allegra, e tutto questo nell’attimo stesso in cui l’aveva guardato dopo che si era voltata al tocco della sua mano sulla sua spalla. Ciao, rispose lui con il sorriso più largo e bello che Valeria avesse visto in vita sua. E allora?, disse lei, e allora rispose lui? E scoppiò in una risata. La prese sotto braccio e si avviarono lungo il marciapiede, un marciapiede qualunque di Milano diventato all’improvviso l’unico marciapiede del mondo. Ti porto al ristorante, disse lui, al ristorante cinese, e scoppiò di nuovo a ridere. Perché ridi?, chiese Valeria, perché i tibetani e i cinesi non è che si amino molto. E allora perché ci andiamo?, chiese lei, dovremo pur mangiare, disse lui. E ancora rise. Lei lo seguiva come se fosse un vecchio amico incontrato al momento giusto, nella situazione giusta, quando ti trovi con persone che non ti piacciono o nella folla, o nell’osteria, o come prima davanti ad un centro buddista dove cerchi disperatamente con gli occhi un viso amico, il viso di un vecchio amico, giusto per sentirti meno solo o se va proprio benissimo giusto per sentirti a casa. Se sentiva a casa camminando accanto a quel ragazzo. Così diverso da tutti gli altri che aveva incontrato negli ultimi tempi nelle osterie o al centro buddista; questo non solo per l’aspetto del viso così diverso per la forma e il colore della pelle, ma anche per una strana e affascinate luce che si irradiava dal colore e dalla forma del suo viso. Un tibetano!, le era capitato un tibetano come viso amico di quel giorno, di quell’ora, di quel momento della sua vita così penoso, doloroso e che sembrava non finire mai. I tibetani sono buoni, devono essere buoni, questo qui che mi porta sotto braccio al ristorante è buono per forza, perché fra tanta gente che c’era lì su quel marciapiede ha scelto di andarsene sotto braccio proprio con la più infelice, la più addolorata, quella che si sente più sola. Così pensava confusamente Valeria, mentre quel tibetano alto e sorridente la faceva volare verso chissà quale magico ristorante dove lei avrebbe ritrovato un po’ di gusto nella vita e forse sarebbe stata anche felice; felice, non sapeva neanche più cosa volesse dire questa parola, almeno nel suo significato ordinario, che diciamocela tutta non è neanche così male, voglio dire il significato ordinario della frase e della realtà “sono felice”; Valeria era già un bel po’ che associava a quella piccola frasetta solo insegnamenti dati dai suoi maestri spirituali o discorsi fatti con Charlotte. Ma il significato comune della frasetta “sono felice” lei non se lo ricordava neanche più. Però adesso a braccetto con quel tibetano tutta luce e sorrisi sì che cominciava a ricordarselo, se lo ricordava benissimo, era quella sensazione magnifica e magica che i maestri catalogano come illusione e che a Valeria però piaceva così tanto ma così tanto che non poteva proprio farne a meno. Soprattutto adesso che ci si era trovata in mezzo senza neanche cercarla quella sensazione magica dell’essere felice nel senso ordinario del termine.
Il ristorante dove entrarono era squallido, niente di attraente lo caratterizzava, né luci soffuse né cineserie di qualche tipo; era uno stanzone semi vuoto, a parte i tavoli, le sedie e alle pareti due mobili per piatti, posate, bottiglie d’acqua e vino. Una cameriera piccola, vestita di nero, a parte un collettino minuscolo e bianco che sbucava dal collo corto e sottile, venne a prendere l’ordinazione al tavolo d’angolo dove avevano preso posto Valeria e il suo nuovo amico tibetano. “Come ti chiami?”, gli chiese Valeria. “Tashi Tsering”, rispose il ragazzo consultando il menu, un foglietto di carta scritto a mano, diviso in due colonne, una scritta in italiano e una in cinese. “Lo capisci il cinese?”, chiese Valeria. “No”, rispose Tashi, sempre consultando con un interesse che a Valeria sembrava eccessivo il fogliettino con in nomi delle vivande. “Posso scegliere per tutti e due, così facciamo prima?”, aggiunse di nuovo allegro e sorridente. “Va bene”, disse Valeria, “ma in che senso facciamo prima?, hai fretta, devi andare in qualche posto?”. “No”, disse lui, allargando gli occhi e avvicinandosi al viso di Valeria, “No”, aggiunse, “ma ho fame”, e lo disse scandendo la parola fa – me. “Anch’io ho fame”, disse Valeria, “ma non devo fare prima, cos’è ‘sta storia del fare prima, cazzo!”, aggiunse. “Sei mica matta?”, chiese Tashi diventato del tutto serio, con un’espressione nuova su viso che risultò antipaticissima a Valeria. “Oppure sei mica una di quelle femministe spaccapalle? Dimmelo subito che è meglio”. “Non so neanche cosa sono le femministe”, disse Valeria, “dove vivo io non ce ne sono”. “Perché dove vivi?”, chiese il ragazzo tibetano. “In Thailandia”, rispose Valeria. “Allora sei una vera buddista! Un po’ troppo precisina magari e che fa un sacco di domande, perché non ti rilassi, che ci godiamo la cena?”. “Sai com’è”, disse Valeria, “chissà cosa mi aspettavo da questo nostro incontro, magari qualcosa di veramente speciale, magari mi sono detta i tibetani sono un po’ meglio degli occidentali, magari ne esce anche un rapporto, pensa un po’, vero, umano, tenero. E invece siamo già qui a discutere, a non capirci”. “Che vuoi fare, andartene?”, disse lui guardandola fissa negli occhi. Valeria ne rimase abbagliata, aveva occhi talmente profondi, vellutati, belli, che rimase, sperando in cuor suo che almeno non finisse come con Andrea. Almeno questo, pensò, che non finisca come con Andrea, che finisca pure ma non in quel modo maledetto.
Quando uscirono dal ristorante cinese si mise a piovere e lui disse “ho la macchina qui vicino”. Era una vecchia cinquecento color azzurro chiaro, lucida e pulitissima, e quando la vide Valeria pensò che quel lucido con la pioggia sarebbe andato via e la macchina sarebbe diventata opaca; dentro sembrava un salottino anni ’50; i sedili erano ricoperti di un tessuto tigrato morbido e al tatto decisamente sintetico; tutto il resto era ricoperto da una specie di moquette color viola scuro; sembrava una piccola caverna calda e accogliente dove si potevano anche passare interi pomeriggi a sentirsi al sicuro dal mondo di fuori. Strano questo posto, pensò Valeria, non disse strana questa automobile, disse strano questo posto, perché quello era un posto, era il posto di Tashi Tsering, gli assomigliava talmente tanto, era quasi lui, almeno agli occhi già innamorati di Valeria. Dalla piccola caverna dove si erano rifugiati si sentiva l’acqua scorrere all’esterno su tutti i lati e i finestrini della cinquecento. Era uno scroscio continuo e forte ma per niente fastidioso, che faceva risplendere gli occhi dei due ragazzi e li faceva sentire vivi, eccitati, liquidi come in una foresta tropicale; se avessero voluto parlare le parole sarebbero scivolate tra loro fluenti e semplici come quella pioggia battente, lo sapevano, ne erano sicuri ed è per questo che non ne pronunciavano nessuna di quelle parole, come se le avessero già dette, come se stessero zitti a guardarsi negli occhi dopo aver pronunciato milioni di parole e fiumi di frasi. Si abbracciarono come in un saluto infinito dopo secoli di solitudine, come fratelli separati alla nascita che si ritrovano senza averlo neanche sperato, come discepoli di un maestro che è morto da poco e li ha lasciati soli. Durò a lungo quel loro primo indimenticabile abbraccio ma quando Valeria tornò a guardare davanti a sé la pioggia che ancora cadeva sulla cinquecento, si sentì di nuovo sola.
Lui la portò nel suo appartamento; era spoglio, anonimo ma pulito; si sarebbe detto che Tashi tenesse di più alla sua cinquecento che la sua casa; appena entrati si abbracciarono di nuovo e dopo andarono nella camera da letto. L’amore avvenne senza parole e fu lungo e dolce, affettuoso e intenso, caldo. Rimasero a letto tutto il pomeriggio e verso sera Tashi preparò una semplice cena a base di spaghetti, formaggio e insalata.
A tavola Valeria , così tanto per intavolare una conversazione, disse : “ Sai io credo nella rinascita, nella reincarnazione, in tutte quelle cose lì”. “Ah sì?”, disse lui, “e come mai?” Perché in effetti o si è completamente materialisti oppure se si crede allo spirito”, disse Valeria, “lo spirito è eterno”, aggiunse, “non è materiale. Io non riesco ad essere completamente materialista, non riesco a pensare che la nostra vita sia come quella di una foglia che quando appassisce si disfa, si trasforma in qualcosa d’altro ma di materiale; io penso che dentro di noi ci sia qualcosa di spirituale, che quando moriamo torna nell’universo e poi viene attratto da un altro corpo. Tu cosa ne pensi?” Tashi rimase come stupito e confuso dalla domanda. “Non mi dire che non ne pensi niente”, disse già con tono deluso Valeria. “Ma veramente”, disse lui , “non ci ho mai veramente pensato”. “Ma come sarebbe a dire, un tibetano che non ha mai pensato alla rinascita?”. “No, non ci ho mai pensato, perché ti sembra così strano?, ti fai un viaggio sbagliato su noi tibetani, siamo proprio come voi, materialisti, egoisti, menefreghisti, ecc”. “ E allora che ci facevi al Centro buddista”, chiese Valeria, turbata e delusa. “ Cercavo te”, disse lui sorridendo. Valeria riconobbe il sorriso che tanto l’aveva già affascinata, ma la delusione rimaneva forte e dentro di lei sentì che la storia difficilmente ora sarebbe potuta andare avanti; guardava Taschi, lo trovava affascinante, anzi bellissimo, ma se non c’erano affinità spirituali per cosa si sarebbero dovuti frequentare? Il fascino per l’esotico sarebbe finito presto da parte di entrambi. “ Ma anche se non ci hai mai veramente pensato, potresti pensarci ora, e dirmi cosa ne pensi di quello che ti ho detto”, insistette Valeria. “ Non so che dirti”, disse Tashi imbarazzato, “ Non ho niente da dire su questo argomento, te l’ho detto non ci ho mai pensato”. E la guardò con il suo solito sorriso. Valeria ricambiò lo sguardo, ma i suoi occhi si erano come spenti e li sentiva rigidi e troppo spalancati, come fissi. Sentiva rigida anche la gola e non aveva più voglia di parlare, ma neanche di andarsene. Sparecchiarono la tavola e poi Tashi accese il televisore; tutta la sera guardarono vari programmi, di musica, di politica, di sport. Verso l’una Tashi riaccompagnò Valeria a casa.
Cominciarono a frequentarsi.
Lui lavorava in un negozio di prodotti orientali: vestiti indiani e tibetani; gioielli di poco valore; magliette; pantaloni di cotone e tessuti a mano; talismani; rosari di preghiere. La casa la divideva con un amico italiano, un giramondo che non c’era quasi mai. Però l’affitto lo pagavano in due e così Tashi viveva benino, anche perché non aveva molte esigenze. Non aspirava a possedere oggetti costosi, non frequentava discoteche o pub, andava qualche volta al ristorante, ma sempre in locali molto economici, come quello in cui aveva portato Valeria appena si erano conosciuti. Era iscritto all’Università, alla facoltà di Lettere Moderne che riusciva a pagarsi con una borsa di studio e studiava assiduamente l’inglese. Frequentava il Centro del Buddismo Tibetano perché aveva un’aria familiare, e ci si sentiva un po’ a casa sua; la sua “casa” originaria, quella vera, non l’ aveva mai vista di persona essendo nato in India poco dopo l’occupazione del Tibet da parte della Cina. Al Centro c’erano monaci e laici tibetani che vivevano a Milano e con cui poteva parlare la sua lingua, che non aveva mai smesso di leggere e parlare da quando era venuto da piccolo in Italia con i suoi genitori. Ora loro si erano trasferiti in India, a casa di una sua sorella; preferivano vivere in quella piccola cittadina abitata da tanti profughi tibetani piuttosto che in un paese così totalmente straniero come l’Italia. Così adesso non aveva nessun parente con cui passare il tempo libero e le festività della tradizione tibetana. Aveva vent’anni Tashi, ed era bello, con i capelli lunghi e lisci come quelli di un indiano americano e l’orecchino pendente d’argento; aveva avuto già molte relazioni con ragazze italiane che però, finito il primo momento di fascinazione per l’esotico, lo piantavano senza tanti complimenti, oppure la storia finiva da sola perché comunque Tashi non aveva intenzione di sposarsi. Non che avesse delle riserve a sposare una ragazza italiana, ma non voleva nessun legame troppo stretto. Un giorno avrebbe potuto anche andarsene dall’Italia, andare a vivere a New York, oppure tornate dai suoi e accasarsi con una giovane ragazza tibetana, come sicuramente sperava sua madre. Non aveva nessuna idea precisa rispetto al suo futuro, ci pensava a volte, ma era soprattutto un gioco di sogni ad occhi aperti. Gli piaceva giocare mentalmente con l’una o l’altra possibilità. O buttarsi nel più occidentale dei mondi, oppure rientrare nell’alveo della tradizione.
Valeria voleva sempre parlare con Tashi di buddismo e pretendeva che lui rispondesse a tutti i suoi dubbi e travisamenti riguardo alla filosofia e alla pratica buddista. Ma lui si annoiava a quei discorsi. “ Sarebbe come se io ti interrogassi continuamente sul cristianesimo. Noi tibetani abbiamo le nostre credenze, cerimonie e tradizioni religiose ma non ne siamo ossessionati come voi occidentali. Siete talmente ridicoli, sei talmente ridicola a pensare che io possa rispondere ai tuoi dubbi in fatto di pratica e teoria buddista. Devi andare da un qualche maestro; io non ne so niente di cose religiose, le accetto e basta, fanno parte della mia vita, del mio patrimonio e non ci rinuncerei per nulla al mondo. Ma ho altri interessi, noi tibetani siamo proprio come voi cristiani, abbiamo la nostra religione ma non stiamo a pensarci tutto il giorno. Facciamo la nostra vita, abbiamo i vostri stessi interessi. Io ad esempio, adoro la letteratura americana, se vuoi possiamo discutere di quella. Lì sì che ho un sacco di cose da dire”. Allora che ci sto a fare con un tibetano, pensava Valeria, se con lui mi devo mettere a parlare di Hemingway o Faulkner come con un qualsiasi altro studentello italiano. Non ha senso, si ripeteva continuamente. “ Io pensavo che con te avrei avuto delle belle discussioni sul buddismo”, gli diceva, “ i maestri sono così distanti e si porta loro un così gran rispetto che non mi riesce con loro di parlare un linguaggio diretto. Ma con te sì che potrei”. “ Solo che io non sono interessato all’argomento. E con questo basta”, gli rispondeva Tashi, “ facciamola finita con questi discorsi, mi stufano. Non sei la prima a prendermi per una specie di guru solo perché sono tibetano. Ti prendo mica io per una specie di santa solo perché sei nata cristiana? Possibile che anche il tuo cervello sia così pieno di luoghi comuni su di noi orientali? Tutti gli orientali ai vostri occhi di occidentali devono essere per forza il colmo, il massimo della spiritualità. Te lo dico chiaro e tondo, a me la spiritualità non interessa. Capito?”. “ Ma allora tu non mediti neppure?”, gli chiese una sera Valeria. “ No, ma una qualche volta prego e partecipo ai riti tradizionali”, gli aveva risposto Tashi.
Una sera avevano appena cenato e la tavola era ancora apparecchiata. Lui le chiese: “ Ma non senti il bisogno di trovarti un lavoro, un’occupazione?”. “no”, rispose lei, “ perché dovrei?, ho la mia rendita”. “ Ma non hai ambizioni?”. “ No”, rispose Valeria più stupita che infastidita dalla domanda. “ Si lavora per i soldi, no?”, aveva aggiunto, “ e io di soldi ne ho abbastanza per vivere. Anzi, se vuoi, puoi pure smettere di andare a lavorare al negozio orientale, i soldi che mi arrivano ogni mese possono bastare per tutti e due, e così potresti studiare di più e più tranquillamente, non ti pare?”. Tashi l’aveva ascoltata fissandola con le ciglia aggrottate. Era bellissimo in quel momento, con quella luce orgogliosa negli occhi e i capelli lunghi, neri e lisci che splendevano sotto la luce del piccolo paralume di carta che dal soffitto pendeva sulla tavola della cucina. Valeria lo stava ammirando e ancora una volta si domandava da dove gli venisse tutta quella orgogliosa bellezza. “Non ci penso neanche”, le disse scuotendo la testa e con una smorfia di diniego sulle labbra. “ Non ci facciamo mantenere da nessuno noi tibetani. Lavoro e studio e non starò qui a casa ad aspettare i tuoi soldi per comprarmi un libro o le sigarette. E non mangerò il tuo cibo e non andrò ad una mostra o al cinema aspettando che tu prenda i soldi dal tuo portafoglio”. “ Scusami”, disse Valeria, “ non volevo certo umiliarti. Io me ne frego dei soldi e me ne frego da dove vengono. La gente lavora per i soldi, se i soldi ci sono già perché lavorare?”. “ Non ti capisco”, disse Tashi, “che cazzo te ne fai del buddismo se non sai cosa significhi la dignità e l’indipendenza mentale? Vai a lavorare e guadagnati il pane e devolvi la tua rendita per la causa tibetana. Ci sono tanti profughi in India e in Nepal, anche in altre parti del mondo. Sei giovane, lavora! E dai la tua rendita ai tibetani poveri, visto che li ammiri tanto”. “ Che c’entra…., questo non c’entra”, balbettò Valeria. Ma era imbarazzata. Il suo egoismo, l’eccessiva considerazione che aveva per se stessa non le permetteva assolutamente di agire come le stava suggerendo Tashi. Sì, forse sarebbe anche stato giusto, ma lei quel passo non l’avrebbe compiuto. “ Non sono pronta per una scelta del genere, una scelta così radicale. Nessuno dovrebbe fare azioni per cui non si sente pronto. Se non sbaglio lo dicono anche i maestri”, disse senza guardarlo in faccia. “ Ah sì?, lo dicono anche i maestri?”, e se lo dicono i maestri e ti fa comodo tu obbedisci eh?”, disse con tono sarcastico Tashi. Si accese una sigaretta e buttò in faccia a Valeria il fumo dopo averlo aspirato. Poi rise, allungò il braccio verso di lei e le accarezzò i capelli. “ Altro che buddista”, le disse, “tu sei una bella bimba bionda e viziata. Ma mi piaci e quindi ti prendo come sei”. Si alzò, le si avvicinò e tenendole la testa tra le dita piene di anelli d’argento, la baciò sulla bocca.

Non essere capiti

18 Set

Non essere capiti
è come

un lutto

L’amore ingrato

3 Set

Guardando i vestiti la sua mancanza si fa cotone, organza dai mille colori sgargianti, si fa pizzo da pochi soldi. Nella mancanza tutto splende, seduce, diventa bello e irraggiungibile. Lei passa tra le file di appendiabiti, tra camice tutte uguali ma di differente colore e pantaloni estivi di fogge diverse, strettissimi, larghissimi, a vita bassa, all’orientale, di cotone grosso o trasparente. Roba da poco, pensa, ma come è bella! Bella della “sua” assenza.
La sua mancanza, la nostalgia di “lui” la sente sulle labbra, sulle guance o nel suo sguardo, che a vederlo da fuori sarà triste e sognante. Ma trovandosi all’improvviso davanti ad uno specchio che la ritrae a figura intera, si trova mal vestita, spettinata, il suo sguardo le rimanda occhi torvi, per nulla sognanti. Occhi impauriti. Mi vedo sempre gli occhi impauriti, si dice. Impauriti di niente. Impauriti e basta.
Si allontana dallo specchio, continua a girare per il negozio con l’aria di chi cerca inutilmente qualcosa. La fa quasi sentire bene quella mancanza così feroce di “lui”, lì dentro, in quel negozio scalcinato, da quattro soldi. Questo negozio è come me, pensa, avvilito, triste, abbandonato. Così rimane a lungo a gironzolare fra tutta quella merce perché lì sente più forte la sua mancanza.
Sono mesi che aspetta un suo cenno, un suo richiamo; aspetta soprattutto qualcosa di scritto, qualunque cosa scritta dalla mano di lui. Si accontenterebbe di un semplice ciao, le riempirebbe per mesi tutte le giornate a venire. Non lo odia ma da lui non arrivano cenni, non arrivano risposte alle sue dimostrazioni di disponibilità. Non lo odia, ma culla la sua mancanza con un sentimento di mesta pazienza che qualche volta si muta in un debole risentimento senza astio.
Immagina future o immediate lettere che potrebbe scrivergli. Lettere di rimprovero o di richiesta d’attenzione, lettere in cui dichiararsi ancor più disponibile. Ma così sarebbe come mettersi completamente nelle sue mani. Questa eventualità la distoglie dal farsi ancora viva con lui. E’ un amore senza speranza, il mio, pensa, eppure non lo scaccia, non fa nulla per dimenticarlo, non vuole dimenticarlo, lo nutre anzi, se ne prende cura come di un amore reale. Il fatto di non essere contraccambiata non le dispiace abbastanza da volersi disfare del pensiero di lui. In qualche modo le riempie una vita senza scosse, senza un vero dolore.
Mentre gira ancora per il negozio di vestiti pensa: sono troppo alta, forse è questo che non va ai suoi occhi, e ho i capelli lunghi e volutamente spettinati.
Culla i pochi ricordi che ha di lui. Il modo in cui si è allacciato la sciarpa lo scorso inverno quando si sono incontrati e hanno parlato qualche minuto, il modo come ha mosso la testa e il corpo mentre parlava della malattia da cui era da poco guarito. Così naturale quel suo muoversi, così seducente quel suo allacciarsi le sciarpa. E’ da quel momento che ha cominciato a pensare a lui. A pensare a lui sempre. Adesso è la mancanza, quel sottile piacevole rodimento che nasce dall’assenza, dal fatto che lui non c’è, non c’è per lei e non ci sarà mai. Di questo lei è sicura. E’ una relazione senza speranza, che non comincerà mai. Non lo interesso abbastanza, pensa. Tutto qui. Non ci sono spiegazioni complicate, motivi nascosti. Del resto è sempre così. Si pensa solo alle persone che ci interessano molto, che per un motivo o per l’altro ci intrigano, dalle quali ci aspettiamo qualcosa, qualcosa di sconosciuto, attraente, qualcosa che ci piacerà, ci cambierà, che ci farà migliori, o superiori, e farà scomparire tutti i nostri difetti, angosce, disperazioni. Per lei è proprio così. Questo è quello che si aspetterebbe da lui. Che lui le portasse e le regalasse tutte queste cose e che le desse la sua disponibilità totale. Che diventasse suo, una sua proprietà. Ecco perché, pur sapendo che è una storia senza speranza lei se la culla e la nutre e la coltiva. Perché solo lui ha quel potere, ha quei regali, felicità, sicurezza e soprattutto la magia, la fiaba. Solo lui ha quelle cose antiche dell’adolescenza. E solo lui può essere veramente amico e fratello. Ecco perché non lo vuole dimenticare. Anche se sa che questo accadrà inevitabilmente.
Così ha deciso. Ogni tanto si farà viva con lui. Per non dimenticarlo. Per alimentare il suo amore. Il suo non ricambiato amore.
Ormai sta girando a vuoto in quel negozio. Si sente ridicola. Si sente osservata, anche se ci sono sì e no tre persone oltre a lei. Il negozio non è grande, si fa presto a perlustrarlo tutto. Lei gira intorno agli appendiabiti, non guarda più niente; non fa più neanche finta di guardare le camice appese, non le tocca, non le osserva, non soppesa il prezzo come fa sempre quando vuole davvero comprare qualcosa. Quelle poche volte che lo fa.
Ormai è tempo di uscire dal negozio, ma un dettaglio la colpisce, come un finale a sorpresa. Una giovanissima commessa chiede a quello che deve essere il suo capo, dove deve mettere il vestito che ha in mano. Si tratta di uno straccetto di stoffa sottile che sta tutto nel pugno di una mano. L’unica sua bellezza sono i colori, sgargianti, mischiati tutti insieme a formare fiori, figure geometriche e astratte. Lui la indirizza con due cenni degli occhi e due o tre parole dette sottovoce. E’ un ragazzo molto giovane, avrà diciotto anni, è vestito senza cura, maglietta sdrucita, pantaloni consumati. Il suo viso è magro, triste, squallido come tutto in quel negozio. La commessa vicina a lui è carina, abbronzata, bassa di statura. Indossa una blusa gialla che lei porta in modo che una spalla sia scoperta, come fosse molto caldo, o lei fosse al mare o in discoteca dopo ore di ballo sfrenato. Invece è un lunedì mattina alle dieci di un giorno di maggio in un negozio semivuoto.
Anche un’altra giovane commessa si avvicina al ragazzo per avere delle indicazioni su dove mettere un paio di pantaloni. Le due ragazze hanno un’aria umile, sottomessa, che non sembra pesare loro, anzi sembra piacere ad entrambe. Hanno l’aria di essere contente di ricevere ordini. Lei osserva la scena per pochi secondi, però ha netta un’associazione mentale: lui sembra il gestore di un cinema porno e loro le sue schiavette. Non dimostrano la minima autonomia, è chiaro che è il ragazzo a pretendere che gli chiedano continuamente cosa debbano fare. Ed è altrettanto chiaro che a loro fa piacere chiedere e ricevere ordini.
Vedendo la dipendenza psicologica delle due ragazzine nei confronti del loro capo poco più grande di loro, lei comincia a sentire come una strozzatura nella percezione di quello che la circonda. Vedendo la dipendenza delle due ragazzine sente più forte la sua nei confronti di “lui”. E la capisce, la coglie, ne diventa consapevole. Adesso si aggira intorno con l’aria smarrita di chi sta precipitando nella propria debolezza e solitudine. Con lo sguardo di chi dentro di sé chiede ad un ignoto altro: aiuto, aiuto.
Esce dal negozio. Il centro commerciale è grande e lei potrebbe passare lì l’intera giornata entrando in ogni boutique e negozio sportivo, nella libreria o nel supermercato dagli scaffali colossali. Sarebbe un modo come un altro per passare la giornata. Ma invece di entrare nel negozio accanto a quello in cui è appena stata, si avvia verso l’uscita; ma fatti pochi passi si accorge che è troppo presto per tornare a casa e che a casa potrebbe stare anche peggio. E ciò la farebbe ricadere nei suoi vizi, bere troppo, ad esempio. Così si aggira nel negozio di calze, in quello dei casalinghi, e in quello dei libri. Ma tra le tazze colorate e gli scaffali dei libri sente salire dentro di sé, salire da un luogo profondo, misterioso e sconosciuto, qualcosa che non è più la mancanza di “lui”, non è più la presenza incombente della sua assenza, del suo silenzio; adesso dal luogo del dolore sale dentro di lei il senso assoluto della sua solitudine. Della sua condanna alla solitudine. La conosce molto bene, ma sperava che l’assenza di lui, così dolce in fondo, così piena di tenerezza, tenesse alla larga quel senso assoluto di solitudine. Quel senso di abbandono, naufragio, di trovarsi su una zattera piccolissima in un mare minaccioso di tazze luccicanti e multicolori, teiere piene di fiorellini e una montagna di libri. Ora il mare della solitudine sono gli oggetti, le centinaia di migliaia di oggetti che riempiono il centro commerciale. Le torna in mente l’estate di un anno prima: quello stesso senso di abbandono lo aveva provato ascoltando il tubare di un colombo candido sul cornicione del suo sottotetto, come pure nel rumore delle mattonelle sconnesse del corridoio. Ma lo aveva trovato anche nelle risate chiassose della famigliola radunata una domenica sera nella casa di campagna vicino alla sua piccola cascina che aveva affittato l’agosto di due anni prima. Momenti indimenticabili di pura solitudine che nulla e nessuno avrebbe potuto mitigare o far scomparire. Ma che poi se ne andarono da soli rapiti dall’allegria di un incontro per strada, o da un film che le era piaciuto o da una nottata passata con qualche uomo incontrato all’osteria in cui lavora la sera.

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